Corporate governance in Italia

Corporate governance

Il dibattito sull’adozione di nuove regole di CG si è sviluppato in maniera significativa in Italia negli ultimi anni ed ha dato luogo ad importanti interventi sia di tipo normativo che autoregolamentare. Alla riforma del 1998 con l’adozione del Testo Unico sull’Intermediazione Finanziaria (Tuif) e all’integrazione dal Codice di Autodisciplina per le società quotate (c.d. Codice Preda), si è aggiunta la riforma del diritto societario del 2003 che ha comportato importanti cambiamenti dei modelli (almeno normativi) di governance delle imprese italiane, quotate e non.

I modelli di governance attualmente previsti dalla nostra normativa (con riferimento alla S.p.A.) sono tre:

1. sistema tradizionale: prevede un’organo amministrativo di nomina assembleare (amministratore unico o consiglio di amministrazione) e il collegio sindacale, anch’esso di nomina assembleare;

2. sistema dualistico (come detto di ispirazione tedesca): prevede che l’amministrazione ed il controllo vengano esercitati da un consiglio di sorveglianza, di nomina assembleare, e da un consiglio di gestione, nominato direttamente dal consiglio di sorveglianza.

3. sistema monistico ( come detto di ispirazione anglosassone ): prevede che l’amministrazione e il controllo vengano rispettivamente esercitati dal consiglio di amministrazione, nominato dall’assemblea, e da un comitato per il controllo sulla gestione costituito al suo interno ed i cui componenti devono essere dotati di particola requisiti di indipendenza e professionalità.

Ovviamente tutti i sistemi di governance hanno l’assemblea dei soci, organo con funzioni esclusivamente deliberative le cui competenze sono per legge (arrt. 2364-2365, cod. civ.) circoscritte alle decisioni di maggior rilievo della vita sociale; non rientra invece nella competenza dell’assemblea l’attività deliberativa in merito alla gestione dell’impresa sociale.

Anche per le società che adottano il sistema dualistico o monistico è poi previsto il controllo contabile esterno.

Ora analizziamo in dettaglio i tre modelli di governance.

Il sistema tradizionale. Questo sistema di amministrazione e controllo, che si applica in mancanza di diversa scelta statutaria, continua a basarsi sulla distinzione tra un organo di gestione – Amministratore unico o Consiglio di Amministrazione – e un organo di controllo, il Collegio Sindacale.

Le più importanti novità introdotte dalla riforma sono le seguenti:

a) Sono stati per la prima volta disciplinati, salvo diverse previsioni dello statuto, i compiti del Presidente del Consiglio di Amministrazione, prevedendo che egli non ha una funzione gestionale, ma quella di far funzionare in modo efficiente il Consiglio di Amministrazione («il Presidente convoca il Consiglio di Amministrazione, ne fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri»: art. 2381, primo comma). Questa modifica tende ad evitare confusioni di ruoli e conflittualità tra Presidente e Consigliere delegato, stabilendo quali sono i compiti del Presidente con una regola allineata ai più accreditati e recenti standards di Corporate Governance.

La circostanza che il Presidente non abbia – salvo diversa previsione dello statuto – delle deleghe gestionali, non ne sminuisce il ruolo nell’ambito dell’organizzazione societaria, poiché, come sottolinea anche la Relazione alla riforma, quando l’amministrazione è affidata ad un Consiglio di Amministrazione, anziché ad un Amministratore unico, il maggior «costo» della collegialità deve essere compensato da un’effettiva partecipazione di tutti i Consiglieri alla gestione della società: e compito principale del Presidente è proprio quello di assicurare il contributo di tutto il Consiglio alla gestione delle società.

b) Uno dei punti più importanti della riforma è costituito dalla precisa indicazione dei poteri-doveri degli organi delegati (Consigliere delegato e Comitato esecutivo) rispetto agli altri componenti del Consiglio (Consiglieri deleganti). Gli organi delegati, oltre ad amministrare la società nei limiti della delega ricevuta (da questo punto di vista non sono state introdotte novità dalla riforma, salvo precisare – come dottrina e giurisprudenza avevano già sottolineato – che il Consiglio è sovraordinato rispetto agli organi delegati, sicché «può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega»: art. 2381, 3° comma), devono:

(i) curare che «l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa» (art. 2381, 5° comma). Compito principale degli organi delegati, oltre all’esercizio della delega, è quindi quello di porre in essere un’efficiente organizzazione dell’impresa, sotto ogni profilo: controllo interno di gestione, sistema amministrativo e sistema contabile, organizzazione dei flussi informativi da parte delle controllate, ecc.;

(ii) riferire «al Consiglio di Amministrazione e al Collegio Sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni centottanta giorni, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuatedalla società e dalle sue controllate» (art. 2381, 5° comma). La nuova disciplina prende atto del dato di fatto che sono solo gli organi delegati, in particolare il Consigliere delegato, che, essendo a capo della struttura, devono essere a conoscenza dell’andamento della gestione e delle operazioni di maggior rilievo del gruppo, e devono quindi riferire al Consiglio e al Collegio Sindacale perché si possano effettuare valutazioni e deliberazioni collegiali sulla base di adeguate informazioni.

Le espressioni usate in questa norma vanno valutate con attenzione:

– la «prevedibile evoluzione» della gestione non è un fatto certo, ma una valutazione che l’organo delegato deve rappresentare al Consiglio e al Collegio Sindacale, spettando poi a tali organi, nell’ambito dei rispettivi poteri e responsabilità, effettuare se del caso la valutazione finale sulla prevedibile evoluzione della gestione e trarne le conseguenze anche al fine di assumere eventuali deliberazioni;

– le «operazioni di maggior rilievo» non sono solo quelle di maggiore rilievo economico, sia per l’ammontare in gioco, sia per le loro conseguenze, ma sono anche le operazioni che, seppure economicamente non particolarmente significative, sono anomale rispetto alla normale attività sociale, o sono in potenziale conflitto con «parti correlate»: è questo, ragionevolmente, il significato da attribuire all’espressione «operazioni di maggior rilievo per le loro dimensioni o caratteristiche»;

– la circostanza che gli organi delegati debbano riferire sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla società «e dalle sue controllate», implica che, a livello organizzativo, la controllante debba sempre curare la trasmissione da parte delle controllate di adeguati flussi informativi. Questo obbligo di curare la trasmissione da parte delle controllate di adeguati flussi informativi vige indipendentemente dalla circostanza che la controllante sia una società quotata (nel qual caso l’art. 114 della legge Draghi già prevede la trasmissione di flussi informativi per consentire la comunicazione al pubblico dei fatti «price sensitive»), ed indipendentemente dalla circostanza che la controllante eserciti un’attività di direzione e coordinamento delle controllate (art. 2497): pertanto, anche quando la controllante, vincendo la presunzione dell’art. 2497-sexies, provi che nella specie essa non esercita l’attività di direzione e coordinamento delle controllate, provi cioè che essa è una semplice holding finanziaria e non già una holding operativa, gli organi delegati della controllante hanno il potere-dovere di organizzare la trasmissione da parte delle controllate di adeguati flussi informativi.

c) Un punto altrettanto importante della riforma è costituito dalla precisa indicazione dei poteri-doveri dei Consiglieri deleganti. Costoro, oltre a conferire la delega stabilendone i limiti (art. 2381, 2° comma), oltre a deliberare sia sulle attribuzioni non delegabili (assai ampliate rispetto al passato: art. 2381, 4° comma), sia sugli altri oggetti che, seppur rientranti nella delega, siano dagli organi delegati fatti deliberare dal Consiglio, e oltre a poter sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega (art. 2381, 3° comma), devono:

(i) valutare «l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società» «sulla base delle informazioni ricevute» dagli organi delegati (art. 2381, 3° comma), con il potere-dovere di chiedere informazioni agli organi delegati della società. Sono quindi chiari i diversi doveri e responsabilità rispetto agli organi delegati: questi ultimi devono curare, cioè porre in essere, una corretta organizzazione della società, mentre i Consiglieri senza deleghe devono solo valutare che l’operato dei delegati sia adeguato alle caratteristiche della società. Questa valutazione deve essere fatta sulla base delle informazioni ricevute dagli organi delegati: nel caso tali informazioni siano insufficienti, è potere-dovere dei Consiglieri senza deleghe chiedere che gli organi delegati forniscano in Consiglio (in modo da evitare informazioni selettive solo a taluni Consiglieri) informazioni supplementari;

(ii) esaminare, quando elaborati, «i piani strategici, industriali e finanziari della società» (art. 2381, 3° comma). Sebbene la norma non stabilisca che tali piani, quando elaborati, debbano essere approvati dal Consiglio, è questa la situazione che normalmente si verificherà: è anzi, questo, uno dei compiti principali che gli statuti di regola riservano alla competenza del Consiglio. L’ampia formulazione della norma consente di comprendere nell’espressione «piani», sia i business plans pluriennali, sia i budgets annuali;

(iii) valutare «sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione» (art. 2381, 3° comma). La legge ha previsto piena trasparenza nei confronti del Consiglio e del Collegio Sindacale, imponendo agli organi delegati di riferire sia sul generale andamento della gestione, sia (anche) sulla sua prevedibile evoluzione, ma ha previsto che il Consiglio debba solo valutare il generale andamento della gestione, e non anche la sua «prevedibile evoluzione». La scelta pare ragionevole, per evitare che il Consiglio debba comunque esprimersi su previsioni future ed incerte, con possibili responsabilità per prosecuzione della gestione nei casi in cui pur essendo l’andamento della gestione negativo, sia stata fatta una previsione – poi non realizzatasi – di suo riequilibrio futuro;

(iv) obbligo di agire «in modo informato», e potere-dovere di chiedere «agli organi delegati che in Consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società» (art. 2381, 6° comma). La norma recepisce l’opinione, prevalente in dottrina e in giurisprudenza, secondo cui, seppure non esista un dovere degli Amministratori di non commettere errori, e nemmeno di essere «periti» nei più diversi settori dell’organizzazione e della gestione dell’impresa sociale, le loro scelte «devono essere informate e meditate, basate sulle rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente improvvisazione» (così la Relazione alla legge di riforma, n. 6.III.4.).

d) La circostanza che, come si è sottolineato, la riforma preveda doveri degli organi delegati nettamente diversi rispetto a quelli dei Consiglieri senza delega, si riflette direttamente sulle rispettive responsabilità. Sebbene, infatti, sia stata conservata la responsabilità solidale di amministratori, sindaci e revisori contabili, la posizione di ciascuno dei vari soggetti solidalmente responsabili va valutata distintamente, in relazione ai diversi obblighi che fanno loro capo.

Come sottolinea la Relazione alla legge di riforma, n. 6.III.4., «la eliminazione dal precedente comma 2 dell’art. 2392 dell’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, sostituita da specifici obblighi ben individuati (v. in particolare gli art. 2381 e 2391), tende, pur conservando la responsabilità solidale, ad evitare sue indebite estensioni che, soprattutto nell’esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finivano per trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva, allontanando le persone più consapevoli dall’accettare o mantenere incarichi in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a responsabilità praticamente inevitabili. Si tratta di un chiarimento interpretativo di notevole rilevanza, avuto riguardo alle incertezze dell’attuale prevalente giurisprudenza».

La specificazione degli obblighi a carico degli Amministratori, l’eliminazione del generico e difficilmente definibile obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, e la modifica degli obblighi degli Amministratori in caso di perdita del capitale sociale (art. 2484, ss.), riporteranno la responsabilità degli Amministratori al principio generale della responsabilità «per colpa», mentre oggi – come sottolinea il passo della Relazione ora riportato – nella giurisprudenza fallimentare la responsabilità degli Amministratori aveva spesso finito col diventare una responsabilità sostanzialmente «oggettiva». La diversificazione, inesistente nell’attuale legislazione, degli obblighi degli organi delegati rispetto a quelli dei consiglieri senza deleghe, determinerà una maggiore estensione della responsabilità dei primi rispetto a quella dei secondi, in conformità al dato di fatto del loro diverso ruolo, dei loro diversi poteri e della loro diversa retribuzione.

e) Ultima importante novità che preme sottolineare è la radicale modifica dell’art. 2391: in luogo di porre un divieto di agire in conflitto di interessi, con le note difficoltà interpretative e applicative di tale norma, oggi il nuovo art. 2391:

– da un lato nettamente privilegia la «trasparenza» in ogni ipotesi in cui un Amministratore abbia, per conto proprio o altrui, un interesse in una determinata operazione della società (trasparenza, quindi, doverosa anche se vi sia «coincidenza» tra

l’interesse sociale e quello dell’Amministratore e anche se l’Amministratore privilegi l’interesse della società a danno del proprio). L’art. 2391, 1° comma stabilisce infatti: «l’Amministratore deve dare notizia agli altri Amministratori e al Collegio Sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata; se si tratta di Amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale»;

– d’altro lato facilita la possibilità deliberativa del Consiglio: una volta manifestato con trasparenza quale sia l’interesse dell’Amministratore, per conto proprio o altrui, in una determinata operazione, tutto il Consiglio è in una posizione di simmetria informativa, e tutti i consiglieri potranno quindi motivatamente esprimere il proprio voto (l’attuale art. 2391, prima della modifica introdotta dalla riforma, prevede invece un dovere di astensione degli Amministratori in conflitto di interessi, sicché, ad esempio in operazioni infragruppo, gli Amministratori della controllata, spesso dirigenti del gruppo, venivano a trovarsi in una situazione di potenziale conflitto di interessi, con la conseguenza che essi, secondo un’interpretazione eccessivamente restrittiva, avrebbero dovuto astenersi dalla deliberazione);

– infine aggrava la responsabilità per violazione dell’obbligo di trasparenza e di motivazione, prevedendosi una responsabilità anche per mancato guadagno e nell’ipotesi in cui un Amministratore abbia utilizzato a vantaggio proprio o di terzi dati, notizie o opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico (c.d. appropriazione di «corporate opportunities»: art. 2391, 5° comma).

Il sistema dualistico. Condivido quanto indicato dall’On. Vietti circa la netta differenziazione di questo organo rispetto al tradizionale Collegio Sindacale. Sebbene, infatti, sia vero che al Consiglio di Sorveglianza sono attribuite funzioni di vigilanza e responsabilità sostanzialmente uguali a quelle del Collegio Sindacale, va sottolineato che ad esso vengono anche attribuite alcune delle più importanti funzioni che, nel sistema tradizionale, sono proprie dell’Assemblea ordinaria: in primo luogo la nomina e revoca dei componenti il Consiglio di gestione, nonché la loro retribuzione; in secondo luogo l’approvazione del bilancio (e, quindi, la distribuzione degli utili); in terzo luogo la promozione dell’azione di responsabilità (la legittimazione ad esercitare tale azione da parte del Consiglio di Sorveglianza si aggiunge a quella della società e dei soci).

La Governance di questo sistema di amministrazione pare quindi ben precisata:

– ai soci spetta, oltre alla nomina del Consiglio di Sorveglianza e del revisore contabile (o società di revisione), determinare le linee del programma economico della società (oggetto sociale) e le modifiche di struttura della società (operazioni sul capitale, fusioni e, più in generale, delibere dell’Assemblea straordinaria);

– al Consiglio di gestione spetta la gestione dell’impresa, spetta cioè, con competenza esclusiva, il compimento di tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale;

– il Consiglio di Sorveglianza ha competenze composite: ad esso spetta infatti sia la vigilanza tipica del collegio sindacale del sistema tradizionale, sia anche alcune tra le più importanti competenze dell’Assemblea ordinaria. Ciò non significa, come invece è stato scritto, che esso abbia «natura ibrida … a mezzo fra le regole dell’organo di controllo e dell’organo gestorio», poiché, come ho ora detto, la gestione dell’impresa spetta «esclusivamente» al Consiglio di gestione. Le funzioni sottratte all’Assemblea dei soci e attribuite al Consiglio di Sorveglianza (nomina dei gestori, approvazione del bilancio e distribuzione degli utili) possono anche chiamarsi – se si vuole – funzioni «gestorie», ma si tratta di funzioni che si differenziano nettamente dalla gestione e amministrazione dell’impresa, che spetta solo al Consiglio di gestione, senza determinare confusione di ruoli e senza creazione di un organo con funzioni contemporaneamente di controllo e di gestione. Se mai si tratta di un organo che ha contemporaneamente sia le funzioni di controllo tipiche del Collegio Sindacale, sia le funzioni più importanti dell’Assemblea ordinaria, con sottrazione quindi ai soci-proprietari di alcune delle attribuzioni tradizionalmente ritenute indissociabilmente da attribuirsi a coloro che investono il capitale di rischio, quali: la scelta dei gestori, l’azione di responsabilità contro di loro, l’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili.

Queste caratteristiche del Consiglio di Sorveglianza fanno del sistema dualistico un modello assolutamente diverso dal sistema tradizionale: non sembra quindi corretta la critica spesso ripetuta secondo la quale i nuovi sistemi di amministrazione introdotti dalla riforma sarebbero sostanzialmente appiattiti e poco differenziati rispetto al modello tradizionale. Una modifica alla disciplina del Consiglio di Sorveglianza che può essere opportuna (v. la possibilità per il Governo di emanare disposizioni correttive e integrative entro un anno dalla entrata in vigore della riforma: art. 1.5. della legge delega del 3.10.2001, n. 366), è quella di estendente al Consiglio di Sorveglianza l’applicazione non solo del secondo e terzo comma dell’art. 2403-bis (così l’art. 2409-quaterdecies), ma anche il primo comma dell’art. 2403-bis, in modo da consentire ai componenti del Consiglio di Sorveglianza di potere «in qualsiasi momento procedere, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo».

Quale può essere una previsione di utilizzabilità in pratica del sistema dualistico di amministrazione? In Francia, dove, come in Italia, l’adozione di un sistema dualistico analogo a quello adesso introdotto in Italia è facoltativa, il sistema è stato adottato solo dal 2-3% delle società, per lo più di rilevanti dimensioni. Ritengo che anche in Italia questo sistema di amministrazione potrà avere un utilizzo limitato, per lo più in casi di società di rilevanti dimensioni o quotate. Si tratta, infatti, di un sistema in cui la nomina degli Amministratori, l’approvazione del bilancio e la distribuzione dei dividendi sono sottratte ai soci e sono attribuite ad un organo professionale quale è il Consiglio di Sorveglianza. È quindi un modello che realizza una rilevante dissociazione tra proprietà (dei soci) e potere (degli organi sociali), e che difficilmente sembra quindi adatto a società a ristretta base azionaria, nelle quali è raro che i soci-proprietari siano disponibili a perdere il diritto di nominare gli Amministratori, approvare il bilancio e distribuire gli utili.

Il sistema monistico. In relazione a questo sistema di amministrazione i profili più problematici concernono il ruolo e la funzione del Comitato per il controllo sulla gestione: cioè del comitato costituito all’interno del Consiglio di Amministrazione, che è formato da Amministratori in possesso di particolari requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza, i quali non possono avere deleghe, né particolari cariche, né possono svolgere, anche di mero fatto, funzioni attinenti alla gestione dell’impresa sociale o di società del gruppo, e che ha compiti di vigilanza analoghi a quelli del Collegio Sindacale.

Senza dilungarmi sui vari problemi interpretativi che la sintetica disciplina prevista dalla riforma non mancherà di far sorgere, mi limito a segnalarne uno, che è stato ampiamente discusso in sede di Commissione per la riforma, in riferimento sia al Comitato per il controllo sulla gestione, sia al Consiglio di Sorveglianza. Il problema è il seguente: la Legge Draghi stabilisce che nelle società quotate la nomina di un sindaco sia riservata alla minoranza (art. 148, comma 2, del D. Legsl. 24.02.98 n. 58). A sua volta l’art. 223-septies, 2° comma, delle Disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, inserito in sede di riforma, stabilisce che «ogni riferimento al Collegio Sindacale o ai sindaci presente nelle leggi speciali [tra cui la legge Draghi] è da intendersi effettuato anche al Consiglio di Sorveglianza e al Comitato per il controllo sulla gestione o ai loro componenti, ove compatibile con la specificità di tali organi».

Orbene, qualora una società quotata adotti il sistema dualistico o monistico, la nomina di un componente del Consiglio di Sorveglianza o del Comitato per il controllo sulla gestione dovrà essere riservata alla minoranza? La soluzione di questo problema dipende dalla risposta alla seguente domanda: la nomina da parte della minoranza di un componente del Consiglio di Sorveglianza o del Comitato per il controllo sulla gestione è «compatibile» con la specificità di tali organi? La risposta mi sembra debba essere affermativa, poiché il Comitato per il controllo sulla gestione è un organo che ha funzioni analoghe a quelle del Collegio Sindacale (v. l’art. 2409-octiesdecies, 5° comma, lett. b e l’art. 2403, comma 1), sicché è giustificato per entrambi che un suo componente sia nominato dalla minoranza dei soci. E discorso analogo va fatto per il Consiglio di Sorveglianza, il quale – come si è sopra detto – ha in parte funzioni analoghe a quelle del Collegio Sindacale, in parte analoghe a quelle dell’Assemblea ordinaria.

Quale può essere una previsione di utilizzabilità in pratica del sistema monistico di amministrazione? Ritengo che, quando si sarà sufficientemente valutato questo modello, esso potrà essere utilizzato da molte società, sia di modeste che di notevoli dimensioni. E ciò per tre motivi. Il primo è che esso consente un risparmio di tempi e di costi rispetto agli altri due modelli di amministrazione. Il Collegio Sindacale e il Consiglio di Sorveglianza sono infatti organi che, tolte le funzioni di controllo contabile (oggi demandate obbligatoriamente ai revisori contabili, salvo i limitati casi – per di più facoltativi – di cui all’art. 2409-bis, terzo comma), determinano costi e tempi non sempre giustificati, che potrebbero essere eliminati, senza che ciò determini, come sottolineato dalla Relazione n. 6.II alla legge di riforma, un «minor rigore dell’attività di controllo».

Il secondo motivo è la migliore circolazione delle informazioni tra l’organo amministrativo e l’organo deputato al controllo (che è formato da un compito costituito all’interno del Consiglio di Amministrazione), con conseguente maggiore trasparenza tra l’organo di amministrazione e di controllo. Il terzo motivo è la maggiore quantità di informazioni e, quindi, la maggiore possibilità che questo organo ha, rispetto al Collegio Sindacale, di svolgere in modo particolarmente informato, e quindi più efficace, i suoi compiti di vigilanza sulla gestione. Ed infatti, essendo i suoi componenti Consiglieri di Amministrazione, il Presidente del Consiglio deve loro inviare «adeguate informazioni» sulle materie iscritte all’ordine del giorno (art. 2381, 1° comma), sicché la loro partecipazione al Consiglio, e le ulteriori informazioni che essi hanno il potere-dovere di chiedere agli organi delegati (art. 2381, 6° comma), mettono i componenti del Comitato nella posizione di effettuare un controllo sulla base di maggiori informazioni e, quindi, potenzialmente più efficace di quello del Collegio Sindacale.