Qualcuno uno volta ha scritto che bisogna avere un caos dentro per partorire una stella danzante. Quel qualcuno era Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900), filosofo tra i maggiori occidentali di ogni tempo, ebbe un’influenza articolata e controversa sul pensiero filosofico e politico del Novecento. Più di un secolo dopo la sua scomparsa, le parole pronunciate da Nietzsche sembrano quanto mai contemporanee.
L’inizio del nuovo millennio è stato segnato da diversi scandali finanziari, dal caso Enron a quello WorldCom, da Abb a Vivendi a Ahold, e gli “italiani” Cirio e Parmalat, Per non parlare della crisi Argentina, della bolla speculativa internet e di quella più recente del mercato immobiliare USA venuta a galla dopo le prime rate di mutui sub-prime insolute. Questi fatti hanno senza dubbio incrinato molte certezze pericolosamente acritiche su alcuni valori ritenuti fondamentali nelle società in cui viviamo: la “purezza” del libero mercato e l‘etica del capitalismo finanziario. Subito dopo questi scandali diversi paesi hanno posto mano a una nuova legislazione, riconoscendo le carenze di quella esistente, affidandosi in misura crescente alla normazione secondaria e all’autoregolamentazione. Se, tutto ciò che è stato “partorito” negli ultimi cinque anni, saranno “stelle danzanti” sarà solo il tempo a dirlo.
Fa riflettere se si pensa, ad esempio, che la Enron, la società protagonista del più clamoroso scandalo finanziario degli ultimi anni, era anche quella dotata di uno dei sistemi di autoregolamentazione più elaborati e severi.
Questo porta a ritenere che le regole (interne o esterne che siano), pur essendo indispensabili, a volte possono non bastare: o perché si rivelano obsolete o perché possono essere aggirate con relativa facilità.
Parte della dottrina ha sostenuto e continua a sostenere che un buon piano di stock option sia la ricetta che consenta di far convergere gli interessi del top-management con quelli degli azionisti e, in generale, di tutti gli altri stakeholders. La recente normativa varata da Banca d’Italia sulla corporate governance delle banche mostra che nodo cruciale del tema restano le stock-option. Resta difficile trovare nella pratica quello che è quasi scontato a livello teorico.
Il conflitto di interessi è sempre esistito, anche se in modo latente, fin dalle origini in molte forme di scambio economico e le forme di base della nostra economia sono state create proprio per tenerlo sotto controllo. Alla radice del conflitto di interessi c’è sempre un forte disequilibrio a favore di uno degli attori. Tale squilibrio è dovuto al prevalere, fuori da ogni norma , regola o prassi, dell’interesse di una persona, e pertanto a un eccesso di appagamento della situazione giuridica di chi agisce in conflitto rispetto a quella di chi il conflitto lo subisce. La sua conseguenza più evidente è la sopraffazione, che si manifesta in qualsiasi rapporto contrattuale, dai più elementari ai più complessi, ogni volta che uno dei due contraenti tratta da una eccessiva posizione di forza, e ne approfitta per imporre la sua volontà all’altro, oppure quando possiede molte più informazioni sull’oggetto della trattativa, ed è in grado di nasconderle.
In linea di principio, i conflitti di interesse possono essere istituzionalmente risolti attraverso il libero accordo contrattuale fra le parti. Tuttavia quando gli interessi in gioco sono collettivi e riguardano intere categorie e i loro diritti, l’autotutela contrattuale non è più sufficiente a comporre il conflitto.
Rossi G. (2003) sostiene che il conflitto (di interessi) “è passato dallo stato endemico a quello epidemico”. E poi continua chiarendo il perché di questa sua affermazione: “Rispondere in breve non è facile, e una risposta univoca non arriverà neppure alla fine del libro. Ma che qualcosa del genere stia accadendo mi pare incontestabile. Se dovessi indicare una differenza, una rottura con la storia del capitalismo recente, sceglierei forse, ancora una volta, un dato quantitativo.
Nelle crisi precedenti, anche gravissime, il conflitto aveva intaccato soltanto l’attività di qualche protagonista del mercato, come le banche, che finanziavano le imprese per nasconderne i dissesti e ne acquistavano le azioni per tenerne alto il valore. Oggi qualunque lettore di quotidiani è in grado di notare che comportamenti come questi caratterizzano tutti gli attori dei nostri mercati”.
Il conflitto di interessi è connaturato al capitalismo finanziario, ma quando passa dallo stato endemico a quello epidemico elude ogni azione istituzionale o legislativa, ogni tipo di regola, e trascina nel caos le stesse strutture di base dei mercati.
Inoltre, è certamente la prima volta nella storia che la legislazione, che disciplina da secoli il regime capitalista, chiama in modo massiccio in causa principi esterni, e più esplicitamente l’etica per trovare una soluzione globale alle disfunzioni di un sistema che appare ormai incontrollabile. Senza badare troppo al significato di parole e concetti decine di migliaia di imprese in tutto il mondo si stanno dotando di propri codici di comportamento, impeccabili nella forma quanto eludibili nella sostanza.
Questo continuo richiamo all’etica nasconde un effettivo bisogno di regole condivise , uguali per tutti, da applicare nel mondo globalizzato; tuttavia negli ultimi anni sono state avanzate ottime soluzioni ma nessuna sembra avere la minima efficacia. “Probabilmente si parla tanto di etica perché, in realtà, ce n’è assai poca”. Il problema tra etica ed affari ha radici remote, e ripropone conflitti e tentativi di soluzione che in passato riguardavano le connessioni fra l’etica da una parte, il diritto, la politica e soprattutto l’economia dall’altra. E le questioni sulle quali ci interroghiamo oggi sono in realtà antichissime, al punto che lo stesso scopo di lucro continua a soffrire il violentissimo pregiudizio che da sempre lo accomuna all’usura, attività peraltro tipica e fra le più tradizionali dell’economia. Sull’argomento Cavalieri E. (2002) osserva che l’etica riferita al mondo delle organizzazioni produttive “si propone, in estrema sintesi di valutare la conciliabilità tra comportamenti etici e creazione del valore. Comportamenti etici, il cui contenuto non può che essere osservato, valutato, definito con riferimento all’attuale contesto storico e temporale. […] Creazione del valore, intesa come maggior valore della produzione ottenuta rispetto al valore delle risorse consumate, fine ultimo di ogni organizzazione produttiva che assuma dignità d’azienda.” La realtà è che affinché qualcosa possa cambiare, perché il groviglio di conflitti di interesse che minaccia di soffocare le nostre economie allenti la sua presa, deve accadere qualcosa su un piano diverso, che forse in questo senso, sì, è quello dell’etica individuale e collettiva.
In conclusione, le considerazioni fin qui svolte sul tema dell’etica rappresentano la via d’uscita (forse l’unica) da quel conflitto epidemico, definito in precedenza, che sembra diffondersi, appunto come un virus, in tutti gli attori di mercato e che ha un punto comune di diagnosi già individuato da Martin Lutero (che lo trasse a sua volta da una lettera di San Paolo) e, cioè che:”Radice di tutti i mali è l’avidità del denaro”.