Le avvisaglie di quanto sarebbe potuto accadere in queste ultime settimane erano evidenti. A pensarlo non sono stati solo i catastrofisti per natura o vocazione, ma una parte cospicua della platea degli osservatori economico-finanziari; solo i signori del “senno del poi” rimangono ancora increduli di fronte a quanto si sta concretamente profilando: la nostra Italia è alle corde, strozzata da uno schiacciasassi che risponde al nome di spread (Btp/Bund), costretta a subire l’onta di una possibile sfiducia senza appello sul sistema Paese, e obbligata persino ad ingoiare il boccone amaro delle risatine del premierato franco – tedesco alla conferenza stampa del 23 ottobre scorso a chiusura del recente summit europeo di Bruxelles. Risate beffarde e anti – italiane, mal digerite dall’entourage del dimissionario capo del governo Berlusconi.
Gli addebiti da rivendicare alla nostra leadership politica, in gran parte fondati e calzanti, sono tanti. Tuttavia insistere sugli errori di strategia (maggioranza parlamentare storica fiaccata inesorabilmente dal dispotismo del Cavaliere) o sul fallimento del tanto decantato “Piano per l’Italia” (liberalizzazioni, rilancio del Sud, efficientamento della Pubblica Amministrazione etc..) dell’attuale (ancora per poco) Governo in carica ha il classico sapore dello sparare sulla Croce Rossa, degno del noto spot pubblicitario che recita il refrain “ti piace vincere facile”…sarei esente da critica sui contenuti.
Più incerto, ma per certi versi, più stimolante trovare una chiave di lettura diversa, un nuovo focus che indirizzi la lente su particolari che possano tramutarsi in sostanza del problema.
Un interrogativo su tutti: può convenire a qualcuno il perdurare della crisi sui debiti periferici europei? La risposta è no, ovviamente; nel lungo termine non giova a nessuno tirare troppo la corda, sarebbe in pericolo lo stesso disegno di Europa unita sotto lo scudo di una valuta comune che franerebbe miseramente.
Pur tuttavia non posso non soffermarmi su un banalissimo rompicapo che vizia a monte le riflessioni di semplice osservatore delle “magnifiche sorti e progressive” della sempreverde Europa.
Quando parliamo di differenziale di rendimento (spread) crescente sui nostri titoli di stato, intendiamo che il costo del rifinanziamento del debito targato Italia sulle nuove emissioni aumenta, facendo gravare un carico di interessi percentualmente più oneroso sulle nostre spalle e sottraendo sempre maggiori risorse alle manovre di rilancio dell’economia. Tuttavia il differenziale si muove simultaneamente e in sincrono nelle due direzioni; vale a dire che se il costo
del nostro debito gradualmente si amplia, a qualcun altro altrettanto gradualmente e, approssimando, proporzionalmente si ridurrà. Parliamo della Germania, il cui Bund è il benchmark di riferimento per chi in Europa vuole aspirare al massimo della virtù nella gestione della finanza pubblica. Proprio nell’anno in corso il rendimento annualizzato del decennale tedesco è passato dal 3,50% a poco più dell’1,70%, movimento questo frutto dell’avversione al rischio crescente che premia in area €uro il più affidabile e solvibile.
Da ciò possiamo ipotizzare, maliziosamente s’intende…., la calcolata astuzia da parte teutonica nel ritardare ad adottare nel consesso europeo decisioni realmente risolutive dei problemi in campo per beneficiare di tassi rifinanziamento a forte sconto rispetto al più prossimo passato. Del resto lo stock di debito che la Cancelliera Merkel gestisce è di tutto rispetto (circa 2.000 mld di €uro, superiore allo stock italiano in termini nominali seppure sensibilmente inferiore, in termini relativi, se lo consideriamo in rapporto al prodotto interno lordo), e tra la fine di quest’anno e nel prossimo 2012 verrà presumibilmente ricollocata una parte cospicua degli oltre 230 mld in scadenza tra Bund e Schatz. Un bel risparmio potenziale, non c’è che dire, che, a conti fatti, consente alla Germania di aderire a costo zero al pacchetto di aiuti di 110 mld di €uro a favore della disastrata Grecia. La sua quota di competenza, la più robusta tra i big in Europa, ammonta infatti a € 22,40 mld, appianabile e recuperabile in appena 6-8 anni di risparmio sui rendimenti decrescenti delle nuove emissioni in calendario nei prossimi mesi.
Beneficio cui la Germania dovrebbe rinunciare qualora si persuadesse nel porre le basi di un piano, questo si di alto respiro europeo, di condivisione del debito (condicio sine qua non per dare alla luce gli osteggiati Eurobond) che consenta ai paesi in difficoltà di indebitarsi a tassi sostenibili e compatibili con le esigenze di crescita della ricchezza annuale prodotta e, contestualmente finanziare direttamente progetti infrastrutturali che accorcino le distanze e rendano più efficienti spostamenti e collegamenti, favorendo nel contempo l’impiego e l’occupazione.
La strada prescelta dalla timoniera d’Europa è invece quella di costringere i partner “spendaccioni” a politiche di austerity contabile che, se da una parte impongono tagli virtuosi alla spesa improduttiva, dall’altra finiscono con l’amplificare imprescindibilmente la pressione fiscale svilendo i consumi e favorendo il prodursi di dinamiche recessive.
Ma a ben vedere alla Germania il ruolo di primus inter pares, di cigno tra gli anatroccoli, pare calzare a pennello e originare da quel DNA distorto e impazzito che è base e fondamento di questa Europa Germania – centrica, in cui proprio tutto (stavolta è il caso di dire…col senno di poi) sembra stato artificiosamente disegnato secondo un algoritmo preciso sulle note della più roboante aria wagneriana.
Il cambio col marco stabilito a monte dell’unificazione valutaria ha, difatti, sopravvalutato il neo-battezzato €uro, con la conseguenza di consentire alla prima industria manifatturiera del vecchio continente di beneficiare di una bilancia commerciale solidissima (+ 13,8 mld, dato di agosto 2011) che, producendo un surplus di parte corrente oltre misura, ha sostenuto Berlino nella sua brillante exit strategy dalla peggiore crisi finanziaria che dal ‘29 si ricordi. Il “miracolo tedesco” continua ad alimentarsi, quindi, non solo grazie ai meriti economici indubbi del modello di perfetta efficienza adottato dai sudditi della Cancelliera, ma anche grazie allo scudo di una valuta debole che ha rilanciato e, a seconda dei cicli, preservato la produttività e la competitività della Germania sui mercati internazionali. Succhiare dalle mammelle della lupa europea ha permesso di ottimizzare a livelli di eccellenza la propria capacità produttiva potendo contare sul tonico export dei propri beni e servizi vs. tutti i partner europei e non, persino vs. quelli identificati dall’acronimo irriverente di PIGS, Italia inclusa, per un valore complessivo di oltre 100 mld di €uro nello scorso 2010 (58,5 mld solo vs. l’Italia). Sarebbe stato possibile tutto questo con il super marco? Certamente no.
E a ricordare i numeri del formidabile export tedesco è stato il ministro italiano uscente dell’Economia, Giulio Tremonti, nel meeting di Comunione e Liberazione di Rimini dello scorso agosto, invitando implicitamente il colosso europeo ad ammettere che gli squilibri e i difetti di costituzione che hanno fatto da cornice e da leit motiv a questa sgangherata unificazione monetaria (politiche economiche non coordinate, poteri limitati del Parlamento europeo, finanze pubbliche gestite non uniformemente rispetto ai comuni e prefissati criteri e vincoli) hanno si prodotto malefici, ma anche tanti benefici.
Sono gli stessi tedeschi ad ammetterlo: il quotidiano Handelsblatt ha recentemente calcolato che l’appartenenza all’unione monetaria ha portato nelle casse dell’economia tedesca 50-60 mld di €uro nei soli ultimi due anni, mentre la KFW, la Cassa Depositi e Prestiti tedesca, ha pubblicato nel mese di ottobre un rapporto che afferma con decisone che “la crescita negli ultimi due anni sarebbe stata (senza l’€uro) molto più bassa per via di tassi d’interesse più elevati ed una moneta più forte”, invitando conseguentemente le istituzioni a proporre e ratificare senza indugio qualunque azione coordinata che preservi l’alveo europeo.
Si perché il peso specifico di cui Berlino dispone è tale da polarizzare e influenzare consensi e indirizzi degli altri partner, ad esempio quando si tratta di rinviare l’istituzione degli Eurobond, prima citati, a data da destinarsi, ovvero non prima che le politiche di austerity e rigore fiscale vengano pienamente portate a compimento (in parole povere significa dare la medicina al malato quando è di nuovo in piedi, in buona forma, dopo una lunga – lunghissima e sofferta degenza o, tutt’al più, quando è irrimediabilmente freddo e ormai esanime).
E come non menzionare il rifiuto di Berlino, anche in questi tempi di cupa crisi, di apportare allo Statuto della BCE quelle modifiche che consentano all’Istituto di Francoforte non solo di acquistare temporaneamente titoli di debito di uno stato membro in difficoltà, ma di assolvere pienamente alla funzione di ‘prestatore di ultima istanza’, garantendone la solvibilità e prevenendo i rischi di credit crunch e di instabilità endemica del sistema. Il Fondo Europeo per la Stabilità Finanziaria (EFSF) o il futuro Meccanismo di Stabilità Europeo (ESM) non potranno supplire e sostituirsi in ciò alla BCE a causa della limitata potenza di fuoco (solo una banca centrale può, se lo vuole, stampare moneta a rubinetto) e a causa del potere di veto che ogni Paese può esercitare autonomamente prima di avviare qualunque azione di salvataggio o sostegno del sistema finanziario.
Tanti, per concludere, i limiti di governance che le Istituzioni europee mostrano ai più diversi livelli, limiti che rendono il vecchio continente un pesante pachiderma, goffo e poco agile nell’affrontare la crisi dei debiti periferici, che rischia di sfociare in un black out finanziario dalle conseguenze immani e incalcolabili. Ritardi colpevoli che mettono il dubbio alla Grecia e agli altri PIGS se continuare a rimanere sotto lo scudo di carta velina di un €uro che, con le premesse di questa breve disamina, tende a sostenere le ragioni dei più forti, dei popoli degli hic sunt leones. Il ritorno alla dracma per la Grecia, con il contestuale suggello di un default sui bond in circolazione, sarebbe un disastro per i cittadini greci? O è ancor più tragico il finire sulla graticola facendo fronte ai tagli alle pensioni, agli stipendi pubblici e privati o al servizio sanitario nazionale etc…, ad una politica spietata, in sintesi, di lacrime e sangue. La tentazione di ritornare al passato potrebbe diventare forte dal momento che la svalutazione delle monete nazionali rispolverate darebbe almeno la possibilità di tentare di evitare la recessione e la prospettiva deflazionistica attraverso il make-up della svalutazione competitiva.
La Germania, in testa ai virtuosi d’Europa, dovrebbe mettere da parte i principi “di facciata” e gli egoismi di parte per attuare una riforma dell’attuale governance, agendo non nella sola direzione che la porta ad imporre ai partner spendaccioni una ristrutturazione forzosa delle finanze pubbliche. Seguitare, così facendo, a non affrontare la reale essenza del problema e godere delle prebende e delle rendite di posizione che il contesto di un Europa debole e disunita continuerebbe a garantirle, configurerebbe una colpa senza appello.
Altrimenti un’altra idea, strisciante (e bizzarra?!?) potrebbe balenare nelle mente: e se la soluzione fosse convincere la Germania ad uscire dall’€uro? Pensiero che sottovoce ha espresso niente meno che il premio nobel per l’economia 2001, Joseph Stiglitz, paventando come necessaria l’uscita del colosso da Eurolandia, con conseguente svalutazione della moneta unica, per far si che le finanze pubbliche disastrate si possano rassettare evitando il rischio di una profonda recessione. Del resto l’esperienza degli ultimi anni ci ha insegnato (pensiamo alla Cina) che un enorme surplus di parte corrente può destabilizzare al pari di una voragine da deficit eccessivo.
E che ne sarebbe della povera Germania, costretta a perdere competitività con la riedizione del ciclo del super marco.
Idea bislacca, non v’è dubbio…ma a pensarci bene…