
Ciò che è successo nel mondo finanziario nei mesi di Settembre e Ottobre 2008 rimarrà a lungo impresso nella memoria collettiva, oltre che nei tassi di crescita dell’economia mondiale. La crisi finanziaria è passata dall’essere fenomeno prevalentemente americano a fenomeno internazionale, non più riguardante singole banche, società creditizie o compagnie assicurative ma l’intero mondo finanziario a livello sistemico.
Le autorità politiche e monetarie hanno operato una significativa inversione di tendenza nei loro interventi correttivi, passando da politiche di interventi ad hoc a politiche di interventi sistemici. L’opinione pubblica ha preso coscienza della gravità della situazione soprattutto tramite il forte impatto mediatico di alcuni pesanti crolli di borsa avvenuti nella prima metà di Ottobre.
In certi momenti, la sensazione è stata quasi quella di trovarsi nel mezzo di una tempesta, e di dover attendere che questa si fosse placata per capire cosa sarebbe rimasto e cosa sarebbe invece stato spazzato via. Anche se non è ancora chiaro se il peggio sia passato e, ancor’più, quanto a lungo si protrarranno gli strascichi della crisi, si possono già delineare delle considerazioni su alcuni degli aspetti che si sono rivelati centrali nello scenario della crisi finanziaria internazionale.
DEREGULATION O RE-REGULATION?
La finanza moderna è caratterizzata da una regolamentazione poco pervasiva, un sistema di allocazione di capitali basato sul mercato e un ampio uso della leva finanziaria. Può essere considerata come successore del banking tradizionale, sistema in cui banche poste sotto regolamentazione da apposite authority prestano soldi a clienti fidàti e detengono il debito nei loro bilanci. Lo sviluppo della finanza moderna è stato alimentato in buona parte dalla deregulation, oltre che dalle innovazioni tecnologiche e dalla crescente mobilità internazionale di capitali, fenomeni verificatisi a partire dagli anni ’80 e assai pronunciati nell’ultimo decennio.
Molti analisti ed esperti concordano sul fatto che uno dei principali fattori che hanno permesso il verificarsi della crisi finanziaria è stato l’eccessivo grado di laissez-faire. I principi economici finanziari liberisti sembrano vacillare, mentre di pari passo i governi adottano interventi di stampo keynesiano.
La logica sottostante alla deregulation è che mercati più liberi siano in grado di produrre risultati superiori e di far fluire i capitali verso i loro impieghi più produttivi, spingendo l’economia e migliorando il benessere. Innovazioni finanziarie in grado di distribuire il rischio riducono il costo del capitale, permettendo a più persone di accedere al credito e di rendere il sistema meno vulnerabile rispetto agli shock.
Alla luce dell’attuale crisi finanziaria, la sostenibilità di questo modello appare quantomeno difficile da difendere. L’idea prevalente è che i mercati finanziari siano intrinsecamente instabili: periodi di stabilità conducono ad eccessi che sfociano in crisi e mercati finanziari più liberi creano soltanto danni maggiori.
La deregulation, fenomeno prevalentemente anglosassone, si è sviluppata soprattutto intorno al “sistema bancario ombra”, costituito dalla miriade di istituzioni finanziarie non bancarie. Molti degli strumenti finanziari di cui tanto si parla oggi hanno trovato ampia diffusione perchè in grado di aggirare le regole, come quelle sull’adeguatezza del capitale delle banche; queste hanno creato veicoli fuori bilancio perchè ciò ha permesso loro di detenere meno capitale; il mercato dei credit default swaps ha consentito di convertire asset rischiosi in asset apparentemente sicuri.
Il primo punto da chiarire è se e quanto la deregulation sia stata un fattore determinante per l’attuale crisi finanziaria. Volendo effettuare una valutazione più approfondita, è necessario analizzare questo aspetto all’interno di un bilancio complessivo delle conseguenze determinate dalla deregolamentazione finanziaria, in un’ottica di costi/benefici. Da un lato la deregulation ha contribuito al raggiungimento dell’attuale livello di benessere e
di sviluppo. Molti studi mostrano che paesi con sistemi finanziari moderni tendono a crescere più velocemente, in particolare quelli che hanno mercati dei capitali liquidi e banche private. La crescita è sostenuta non dall’aumento dei risparmi ma da una più efficiente allocazione del capitale, che a sua volta aumenta la produttività. Altri studi hanno mostrato che negli USA gli stati che hanno fatto di più per deregolamentare i loro sistemi bancari negli anni ’70 sono cresciuti più velocemente degli altri. Ancora, i paesi anglosassoni si sono dimostrati più pronti, rispetto ad altri in cui prevale il sistema bancario tradizionale, nel riallocare le risorse da settori in declino a nuovi settori ad alto tasso di crescita.
Va ricordato poi che la finanza moderna, anche per merito dei famigerati subprime e dei titoli cartolarizzati, ha accresciuto la possibilità di accesso delle famiglie al credito, aumentando la porzione di quelle che ora hanno una casa di proprietà, e ha permesso loro di migliorare la gestione e la distribuzione dei consumi nel tempo, riducendo l’impatto di periodi di difficoltà economica.
Alla luce della crisi finanziaria, la dinamica appena delineata deve però essere riconsiderata, se non altro perchè il più ampio accesso al credito ha chiaramente alimentato la bolla immobiliare. Un altro prodotto della deregulation, la cartolarizzazione, si è dimostrata incapace di garantire quei vantaggi per cui è stata concepita: molte delle banche che hanno creato i mortgage-backed securities hanno fallito nel distribuirli in modo efficiente, detenendo una porzione eccessiva di rischio nei loro bilanci. Infine, l’uso spregiudicato della leva finanziaria, tipico delle banche d’investimento, ha alimentato la bolla del credito, andando ad inserirsi in senso prociclico nella spirale di indebolimento del sistema finanziario. Ciò non è imputabile soltanto alla deregulation, ma anche a condizioni monetarie in cui tassi ufficiali d’interesse americani sono rimasti a livelli troppo bassi per troppo tempo (a partire dal 2001).
A fronte della responsabilità attribuibile alla deregulation, il dibattito di politica economica è attualmente concentrato sul ritorno ad una maggiore regolamentazione dell’intero sistema finanziario.
Le proposte più dibattute sono le seguenti:
• una riforma del sistema di funzionamento delle agenzie di rating, dato il loro evidente conflitto di interesse dovuto al fatto che vengono remunerate dai soggetti sui quali devono esprimere giudizi;
• un cambiamento della struttura di incentivi all’interno delle istituzioni finanziarie, in modo da scoraggiare comportamenti sconsiderati e di breve periodo da parte dei manager che si arricchiscono anche quando le loro banche subiscono pesanti perdite;
• riorganizzazione del sistema di supervisori finanziari federali e statali negli USA, che spesso si incrociano e a volte lasciano zone grigie.
La questione aperta è quella di capire dove e fino a che punto deve essere riportata la regolamentazione. In ogni caso occorre osservare che, così come le innovazioni finanziarie hanno solo una parte della responsabilità, allo stesso modo le riforme regolatrici potranno costituire una soluzione soltanto parziale. Di seguito sono riportate le parole di Joseph Stieglitz, professore di economia alla Columbia University e Premio Nobel nel 2001, in merito all’importanza di un sistema di regolamentazione efficiente: “Credo che debba essere data ampia libertà agli uomini di negoziare gli uni con gli altri, finchè non rechino danno ai terzi. Ma le istituzioni finanziarie sono responsabili dei soldi di altri. Quando falliscono, anche il nostro sistema economico fallisce e vi è un gran numero di vittime innocenti.
È per questo che il governo è intervenuto con i salvataggi, non soltanto in questa occasione ma ripetutamente. Il settore finanziario ha ripetutamente mostrato che, senza regolamentazione, semplicemente non è in grado di essere responsabile della gestione di soldi altrui in modo prudente, senza mettere a repentaglio l’intera economia. E i depositanti comuni, i piccoli investitori e coloro che risparmiano per la loro pensione semplicemente non sono in grado di esercitare autonomamente un’adeguata supervisione. Questa costituisce un bene essenzialmente pubblico. Tutti beneficiamo da istituzioni finanziarie ben regolate. Le nostre istituzioni finanziarie hanno fallito, ma in parte hanno semplicemente fatto quello che fanno le imprese del settore privato, hanno massimizzato il benessere dei loro manager. Oggi abbiamo bisogno di un sistema regolatore degno del ventunesimo secolo per essere sicuri che, in futuro, essi prendano in considerazione le conseguenze più ampie delle loro azioni”.
CONSIDERAZIONI DI POLITICA MONETARIA.
Oltre al problema della regolamentazione dei mercati finanziari, un altro aspetto al centro delle critiche è costituito dal comportamento e dalle politiche adottate dalla banca centrale americana. Fondamentalmente la Fed è stata accusata per due motivi, entrambi relativi al periodo pre-crisi: essa non sarebbe riuscita a comprendere la portata dei rischi che si andavano formando nel sistema bancario “ombra” e avrebbe contribuito ad alimentare la bolla del credito tenendo i tassi d’interesse troppo bassi per troppo tempo.
A partire dalla recessione del 2001, infatti, la Fed ha mantenuto il tasso ufficiale di sconto a livelli inferiori al 2% fino al 2006; secondo molti analisti, tra cui la Bank for International Settlements, questa politica di denaro a basso costo per un lungo periodo di tempo, favorendo la sottoscrizione di mutui a tassi variabili, avrebbe alimentato la bolla immobiliare.
Le difficoltà più recenti sono cominciate nel Luglio 2007, quando Bear Sterns ha rivelato i danni arrecati dai mutui subprime su due dei propri hedge fund; il successivo fallimento di Lehman Brothers, seguito da una serie di salvataggi in Europa e America, ha aggravato
ulteriormente la situazione.
La Fed in questa seconda fase è intervenuta in modo massiccio, raggiungendo un grado di interventismo probabilmente senza precedenti storici. Essa ha operato in due direzioni: in primo luogo ha ripreso la politica di riduzione dei tassi per ridare respiro all’economia; in secondo luogo ha usato il proprio bilancio per aiutare le banche commerciali e d’investimento in difficoltà con i loro titoli tossici. Circa un anno fa, il 91% delle attività della Fed erano investite in bond governativi, mentre ora lo è solo il 52% e la parte residua è rappresentata da prestiti a banche. Altri interventi della Fed sono stati il pagamento degli interessi sulle riserve delle banche commerciali depositate sui propri conti e il finanziamento dei commercial paper emessi dalle imprese, allo scopo di sbloccare questo canale che, soprattutto dopo il fallimento di Lehman Brothers, era entrato in crisi, ponendo le imprese non finanziarie in seria crisi nel reperire capitale a breve termine.
Questi interventi si sono basati sull’assunzione che il sistema bancario fosse strutturalmente solido e sufficientemente capitalizzato e nell’illusione che vi fosse soltanto un temporaneo problema di illiquidità, piuttosto che di insolvenza. L’insolvenza non può essere curata con ulteriori prestiti, per quanto vantaggiosi questi possano essere. Essa richiede più capitale, di cui, durante le crisi, solo i governi dispongono: è in questa ottica che si inserisce il piano Paulson.
La politica di bassi tassi d’interesse della Fed è finalizzata al ripristino delle condizioni necessarie per la sopravvivenza e il buon funzionamento del sistema bancario. Queste si fondano in buona parte sullo stato di salute del mercato dei prestiti interbancari, che attualmente, invece, versa in condizioni critiche. Il tasso ufficiale annunciato dalla Fed è quello relativo ai prestiti per le banche; quando queste prendono in prestito fondi da altre banche, devono pagare un tasso maggiore (tasso Libor o Euribor). Normalmente lo spread tra Libor e tasso ufficiale è soltanto una frazione di un punto percentuale.
Il primo Ottobre lo spread su prestiti a tre mesi ha registrato un valore superiore ai due punti percentuali. L’ampiezza di questo margine riflette la preoccupazione sulla capacità delle banche di onorare i prestiti, dato il loro indebolimento: tre mesi rappresenta un periodo lungo per credere nella sopravvivenza di una banca.
Il buon funzionamento del mercato dei prestiti interbancari ha conseguenze molto importanti: i prestiti a tassi variabili sono impostati in riferimento ai mercati monetari, quindi maggiori tassi per le banche implicano maggiori tassi per tutti. Inoltre, se il mercato monetario rimane bloccato, le imprese possono trovare difficoltà nel trovare finanziamenti, con conseguenze in termini di licenziamenti e bancarotte. Il ripristino delle condizioni di normale funzionamento nel mercato monetario è quindi una premessa necessaria per il superamento della crisi finanziaria ed è proprio in questa
ottica che vanno letti gli interventi della Fed di questi ultimi mesi.
Una soluzione efficace per il recupero della fiducia nel mercato interbancario sembra essere quella adottata dall’Irlanda, in cui lo Stato ha concesso delle garanzie sulle passività delle banche, per un periodo limitato di tempo. Questo potrebbe indurre le banche a prestarsi liquidità, sbloccando un mercato altrimenti in paralisi.
IMPATTO DELLA CRISI SULL’ECONOMIA REALE.
Per quanto riguarda l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale, i giornali e i media sono impegnati negli ultimi giorni a produrre previsioni sull’imminente recessione, da più parti annunciata come imminente, se non già in corso. Tutta la discussione appare molto vincolata a ciò che si intende per recessione. Tecnicamente, vi è recessione se il PIL decresce per due trimestri consecutivi.
Questa definizione in realtà non ha una valenza assoluta e deve essere interpretata. Se un’economia cresce del 2% nel primo trimestre e decresce dello 0.5% nel secondo e nel terzo trimestre è definita in recessione. Ma se un’economia decresce del 2% nel primo trimestre, cresce dello 0.5% nel secondo e decresce ancora del 2% nel terzo allora non è in recessione. È chiaro che l’analisi deve essere integrata in qualche modo.
Una possibilità è quella di confrontare i tassi di crescita del PIL con i tassi di crescita potenziali del PIL stesso. Questo confronto condanna Stati Uniti, Europa, Gran Bretagna e Giappone alla recessione già a partire dal terzo trimestre del 2007. Anche questo meccanismo tuttavia soffre del fatto che i tassi di crescita potenziali del PIL sono delle stime e non rappresentano dati certi. Un’alternativa è costituita dall’osservazione dei dati sulla disoccupazione, che hanno anche il vantaggio di essere più frequenti di quelli sull’output. Una crescita nel tasso di disoccupazione è un buon segnale del fatto che la crescita è scesa sotto i suoi livelli potenziali. Questo tipo di analisi condanna Stati Uniti e Giappone alla recessione e salva, in attesa dei prossimi dati, l’Europa.
IMPATTO DELLA CRISI SUI PRINCIPI CONTABILI: IL FAIR VALUE.
Nella prima settimana di Ottobre 2008, Sec e Fasb hanno adottato una misura di emergenza in materia di principi contabili. Oggetto di revisione è stato il principio contabile Sfas 157 (fair value measurement), il quale prescrive che le attività finanziarie dei bilanci debbano essere valutate al loro prezzo di mercato. Anche l’Unione Europea e lo Iasb hanno manifestato il proprio dissenso nell’applicazione del principio del fair value in una situazione contingente di crisi finanziaria internazionale. Il fair value, infatti, implica che le valutazioni di bilancio siano effettuate ai valori di mercato correnti, esponendo le imprese ai suoi andamenti positivi o negativi. Inoltre ciò determina un effetto prociclico: l’andamento del mercato influenza i risultati delle società, i quali a loro volta si ripercuotono sul mercato amplificandone gli effetti.
Di qui la necessità di giungere ad una valutazione alternativa degli attivi e dei passivi finanziari in situazioni di mercati divenuti illiquidi e con scambi limitati. Occorre precisare che in condizioni di mercato efficiente il fair value continua a rappresentare il criterio ottimale, in quanto la conoscenza del valore attuale ed equo degli asset, assicurando la solvibilità dei debitori, costituisce una forte attrattiva per gli investitori.
Nella seconda settimana di Ottobre 2008 anche lo Iasb è intevenuto sulla questione dei principi contabili. L’organismo ha assunto un provvedimento in base al quale, al verificarsi di circostanze eccezionali, viene meno il divieto imposto nello Ias 39 di trasferire le attività finanziarie dalla categoria fair value ad altra categoria in cui la contabilizzazione sia al costo ammortizzato. Questa modifica riguarda non solo le banche ma anche tutte le società quotate. In pratica tali imprese avranno la possibilità di trasferire le attività finanziarie non derivate dal trading book, in cui vengono valutate al fair value, al banking book, in cui sono valutate al costo ammortizzato. Il deemed cost, cioè il primo valore contabile dei titoli trasferiti, coincide con il fair value rilevato al primo Luglio 2008, il primo giorno dopo la chiusura della semestrale.
La modifica dei principi contabili ha rappresentato la risposta ad una necessità urgente, dato che l’obiettivo è la sua applicazione già a partire dalle prossime relazioni trimestrali, che dovranno essere depositate entro la metà di Novembre; questo allo scopo di evitare che le imprese debbano iscrivere subito le perdite maturate nella fase di eccezionale deprezzamento dei mercati.
Queste modifiche sono state introdotte in tempi ridottissimi, grazie ai grandi consensi da cui sono stati accompagnate. In soli tre giorni, infatti, la proposta dello Iasb è stata approvata dall’Efrag (l’organismo tecnico-politico che supporta la Commissione Europea in materia contabile), dall’Arc (comitato politico della Commissione Europea per le questioni contabili), ha ricevuto il parere positivo del Parlamento Europeo ed ha avuto il via libera all’unanimità dai 27 stati dell’Unione.
Attualmente lo Ias sta valutando la possibilità, caldeggiata dalle autorità politiche dell’Unione Europea anche in seguito alle pressioni di banche e istituti di credito, di estendere le concessioni ad altre categorie di titoli: gli strumenti derivati embedded e le fair value option. Inoltre anche le compagnie assicurative chiedono facilitazioni contabili per i loro strumenti assicurativi, penalizzati dal dover essere valutati al fair value dal lato dell’attivo e la costo storico dal lato passivo.
IMPATTO SUL SISTEMA BANCARIO E PROSPETTIVE. Una delle conseguenze più sconvolgenti della crisi è stata la fine dell’era delle banche d’investimento indipendenti. Lehman Brothers è fallita, Merrill Lynch e Bear Sterns sono state acquisite a prezzi di liquidazione rispettivamente da parte di Bank of America e da JP Morgan Chase, Goldman Sachs e Morgan Stanley, le uniche due sopravvissute, si sono trasformate in banche commerciali. In quest’ultimo caso, la trasformazione permetterà alle banche coinvolte di raccogliere depositi, una forma più stabile di finanziamento, e di accedere ai finanziamenti pubblici della Fed. Dall’altra parte saranno soggette ad una più stretta supervisione delle autorità di vigilanza, ad una riduzione della leva finanziaria, requisiti di capitale più stringenti e limiti sull’attività di investimento. Anche le banche europee sono accusate di avere una leva eccessiva, come confermato dall’analisi dei core tier1 e dei coefficienti patrimoniali, quasi sempre sotto i livelli di accettabilità se non addirittura inferiori a quelli delle banche d’investimento americane spazzate via dalla crisi.
Questo nuovo scenario delinea i prossimi caratteri evolutivi dell’attività bancaria: si tornerà probabilmente al modello di banca più tradizionale, in cui prevale la componente commerciale: raccolta di denaro dai depositanti e suo impiego per finanziare imprese e famiglie. Torneranno in primo piano l’attività di raccolta e i rapporti con la clientela retail e con le piccole-medie imprese. Questo cambiamento determinerà una minore redditività dell’attività bancaria. Le commissioni su vendita di fondi comuni e strumenti derivati subiranno una contrazione proprio per la riduzione del volume di affari in questi comparti. Inoltre le banche stesse si assumeranno meno rischi, anche a costo di minori rendimenti attesi. Per quanto riguarda il sistema bancario italiano, le conseguenze non dovrebbero essere pesanti come in quello americano. Esso infatti non si è mai sganciato eccessivamente dal modello di banking tradizionale, dispone già di sufficienti margini di profitto sulle attività bancarie ordinarie ed ha livelli di patrimonializzazione medi tra i più alti in Europa.
Una volta che i mercati si saranno ristabilizzati, ci si chiederà se il nuovo sistema orfano delle banche d’affari pure costituisca un miglioramento o un passo indietro. Certamente vi saranno alcuni sostenitori del ritorno delle banche d’investimento, anche se questa soluzione ancora non sembra plausibile. Almeno per un po’ si tornerà al regime vigente fino a 75 anni fa, quando, con il Banking Act, venne sancita la separazione legale tra banche commerciali e banche d’investimento.