
Nell’Employment Act del 1946, il Congresso assegnò alla Fed l’obiettivo di perseguire “il massimo livello di impiego, di produzione e di potere d’acquisto”, sebbene tale visione prevaleva anche in precedenza. Come abbiamo visto anche nel terzo capitolo, lo schema teorico di riferimento della Fed è la Taylor Rule e quindi gli obiettivi finali della banca centrale sono la stabilità dei prezzi e la stabilizzazione dell’output.
E’ noto che, sebbene tali obiettivi possono rendere la politica monetaria meno trasparente rispetto ad una strategia d’Inflation targeting, la Fed ha solitamente utilizzato forme d’intervento regolari e programmate che permettessero al mercato di capire in quale direzione si sarebbe mossa la politica monetaria, aumentandone il grado di trasparenza.
Il problema che è emerso negli ultimi anni è stato quello legato alla stabilità finanziaria e al peso che tale obiettivo dovrebbe avere rispetto agli altri due, proprio perché in presenza di uno shock finanziario si verificherebbe un’illiquidità nel sistema che porterebbe ad una contrazione del volume di prestiti, di conseguenza una minore possibilità di effettuare investimenti e quindi una riduzione dell’output; tale problema ha assunto maggiore importanza proprio alla luce della crisi dei subprime e quindi si è sviluppato un lungo dibattito tuttora in corso sulle modalità d’intervento che stanno adottando le banche centrali ed in particolare sul diverso atteggiamento che stanno avendo la Fed e la Bce.
La prima in particolare ha messo in atto dopo tre anni di aumento dei tassi una politica monetaria espansiva (quantitative easing), che ha avuto inizio nell’agosto 2007, motivando i ripetuti interventi compiuti come forme d’intervento volte a ristabilire una liquidità adeguata nel sistema e soprattutto a scongiurare o limitare la possibilità di una recessione economica, assegnando priorità all’obiettivo della crescita rispetto a quello di stabilità dei prezzi; tuttavia l’allentamento delle condizioni del mercato creditizio è continuato fino all’attuale livello dei tassi, quando le paure di una recessione si sono concretizzate.
La seconda, invece, ha affrontato la crisi finanziaria, in un primo momento, con ripetuti interventi volti a fornire liquidità al sistema sotto varie forme, ma non è mai intervenuta sul tasso di policy, che è rimasto stabile al 4%, con un picco del 4,25%, perché l’obiettivo finale della Bce è la stabilità dei prezzi con un tasso d’inflazione obiettivo al 2%, che fino al settembre 2008 è sempre stato superiore. Tuttavia la view della Bce si è modificata in coincidenza del fallimento di Lehman Brothers e dei salvataggi da Fannie Mae, Freddie Mac, Aig e dell’acquisizione di Merrill Lynch da parte di Bank of America, che hanno reso chiaro a tutti che le preoccupazioni che alcuni nutrivano di una recessione erano fondate. L’atteggiamento da parte della Bce era dovuto quindi al timore che una politica monetaria espansiva avrebbe reso ancora più elevata la crescita dei prezzi, sebbene la crisi attuale stava già causando una riduzione della crescita dell’economia. La Federal Reserve quando ad agosto 2007 ha modificato la sua strategia di policy per attenuare le tensioni sul mercato monetario, ha generato una serie di commenti alcuni dei quali riflettono la preoccupazione che tali azioni di policy in alcune circostanze creino moral hazard. Il timore verso il moral hazard consiste nel fatto che azioni di politica monetaria volte ad alleviare situazioni di stress finanziario, possono incoraggiare gli investitori ad assumere maggiori rischi, i quali confidano nel salvataggio da parte della banca centrale.
Tuttavia l’atteggiamento della Fed è stato analizzato da Poole (2007)[1], per comprendere se l’intervento in situazioni di emergenza sia compiuto per “salvare” il mercato o per evitare che crack nel sistema finanziario abbiano conseguenze ben più gravi per l’economia.
Nella crisi del 1929, la borsa statunitense dai massimi del 1929 al 1932 crollò dell’85%; se la Fed avesse adottato una politica monetaria espansiva, sufficiente ad evitare la Grande Depressione, avrebbe evitato un crollo così forte del mercato azionario ? Supponendo che una politica monetaria espansiva avrebbe aiutato il mercato azionario, si potrebbe affermare che la Fed “salvando” gli investitori ha creato moral hazard ? Nel suo studio, Poole afferma che una politica monetaria espansiva avrebbe aiutato non solo il mercato azionario, ma anche il mercato dei bond e dei mutui ed il sistema bancario, riducendo il numero dei default di aziende e famiglie negli anni seguenti.
Ora si può porre la stessa domanda nella situazione attuale. Molti degli esperti di banche centrali hanno criticato l’atteggiamento della Fed perché creerebbe moral hazard, ma secondo Poole c’è un’incomprensione sulle responsabilità delle banche centrali. Una politica monetaria che persegue stabilità dei prezzi e crescita dell’economia non può creare moral hazard perché non c’è nessun tipo di azzardo, mentre un’azione di policy volta a prevenire una crisi finanziaria crea moral hazard. Infine, il concetto che la Fed risponde ai crolli dei mercati azionari, indipendentemente dalla relazione che tali cadute hanno con il perseguimento del duplice obiettivo della Fed, non è supportato dall’evidenza storica.
Comprensione dei salvataggi
Un tradizionale salvataggio comporta un’assistenza del governo verso una particolare azienda, gruppo di aziende o gruppo di individui. Tale analisi si concentra sul salvataggio di aziende, ma lo stesso discorso vale per i privati. Ci sono occasioni in cui l’intervento del governo per salvare un’impresa è giustificato, come nel salvataggio di uno dei maggiori appaltatori per la difesa durante periodi di guerra. Ad ogni modo, la maggior parte degli economisti credono che i salvataggi sono raramente giustificati e solo in poche circostanze il governo dovrebbe intervenire nel salvataggio di un’impresa.
Un’importante argomentazione di coloro che si oppongono al salvataggio è che questo costituisce un precedente per il futuro. Un salvataggio crea quello che in letteratura viene definito “moral hazard”, creando l’aspettativa che nel futuro il governo potrebbe intervenire per evitare il rischio di fallimento. Tale presunzione incoraggia un’azienda ed i suoi investitori ad essere meno accorti nell’assunzione di rischi, che a loro volta aumentano le probabilità di perdite future.
Un problema tipico della gestione dei contratti assicurativi è che il compratore dell’assicurazione ha meno incentivi, in virtù del fatto che è assicurato, a controllare i rischi, ma i contratti sono scritti in modo tale da incentivare il controllo del rischio da parte dell’assicurato.
I programmi di assicurazione del governo richiedono forme di divisione delle perdite, ma ci sono molti programmi e pratiche governative che non controllano adeguatamente il moral hazard. Forse la pratica più pericolosa è la gestione del dopo salvataggio, dove un’impresa è soccorsa al di fuori di ogni regolare programma. Un tale salvataggio può cambiare le regole del contesto competitivo in maniera imprevedibile. Nessuno può sapere se un salvataggio si ripeterà o meno.
La Fed non ha fondi né autorità per fornire capitali o per garantire alle imprese il salvataggio nel senso tradizionale; la Fed non può salvare neanche le banche, tuttavia può fare prestiti alle banche, che siano coperti da buone garanzie e solo a banche che siano ben capitalizzate. La Fed può prestare denaro a banche in difficoltà che richiedono liquidità d’emergenza per prevenire collassi imminenti, ma solo dietro presentazione di adeguate garanzie. La Fed opera in collaborazione con l’FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation) e con altri enti regolatori del sistema bancario per chiudere banche in crisi o per trovar loro un compratore.
I creditori a volte salvano i debitori, ristrutturando le obbligazioni, estendendone il periodo di rimborso o riducendo il tasso d’interesse. Ristrutturare un mutuo è spesso nell’interesse del prenditore di fondi, che può evitare il pignoramento; la ristrutturazione del prestito è anche nell’interesse del prestatore di fondi per evitare i costi del fallimento e per ottenere il massimo ritorno possibile da un prestito. Tuttavia, i prestatori devono essere attenti a non rendere le condizioni per i soggetti finanziati troppo agevoli per paura che altri prenditori di fondi chiedano condizioni simili e poi non siano in grado di ottemperare alle loro obbligazioni.
Un salvataggio di questo tipo è diverso da quello compiuto dal governo perché le perdite gravano sul prestatore di fondi e non sulla collettività, pertanto le perdite incentivano il finanziatore ad essere più disciplinato nell’assunzione di decisioni. Bisogna dire che negli ultimi mesi i salvataggi sono diventati qualcosa di “ordinario” perché anche il Governo Usa si è reso conto della straordinarietà della situazione e della necessità di un intervento diretto dello Stato, per mezzo della Fed, nell’economia. Sulla base di queste assunzioni, è stato elaborato il piano Paulson per il bail out delle istituzioni finanziarie; piano di salvataggio che, come accadde ai tempi di Bear Sterns, Bernanke ha ritenuto necessario affinchè non si innescasse una crisi sistemica (basti pensare a cosa sarebbe successo se fossero falliti Fannie Mae e Freddie Mac).
4.3.1.2 Il “Fed Put”
L’argomento del “Fed Put” è solitamente riferito alle reazioni della politica monetaria ai crolli del mercato azionario.
Analizziamo la figura 4.3, che stima il logaritmo naturale dello S&P 500 ed identifica tutti i cali del mercato azionario superiore al 10% dal 1950. La figura mostra anche la misura del tasso di policy della Fed che per il periodo antecedente al 1982 è il tasso ufficiale di sconto e per il periodo seguente è il tasso dei federal fund. Le aree ombreggiate mostrano le recessioni secondo la definizione del National Bureau of Economic Research.
La figura mostra 21 crolli del mercato azionario superiori al 10%. All’interno dei tre mesi di questi picchi di mercato, la Fed ha mantenuto il tasso di policy costante, o lo ha aumentato, in 12 occasioni; si è verificata una riduzione dei tassi, invece, in 9 occasioni[2], ma per 5 di questi 9 tagli, la Fed ha agito prima del picco del mercato azionario; le sue azioni di policy quindi non erano motivate da cali del mercato azionario.
I tagli dei tassi da parte della Fed seguirono i massimi del mercato azionario nel settembre 1976; il primo taglio dei tassi avvenne 9 settimane più tardi. Un altro caso si verificò dopo i picchi di mercato del luglio 1998; il taglio dei tassi della Fed verso la fine di settembre fu la risposta alla situazione del mercato monetario in seguito al quasi fallimento del fondo Long-Term Capital Management (LTCM) e non la risposta al mercato azionario.
Dopo il massimo registrato nel marzo 2000, ebbe inizio il mercato orso che terminò nell’ottobre 2002. L’iniziale crollo fu improvviso, ma il mercato recuperò fino a raggiungere un nuovo punto di massimo a settembre 2000, che fu solo leggermente inferiore a quello registrato a marzo. Durante il periodo di mercato ribassista, ci furono molti picchi, ciascuno più basso del precedente. Durante questo periodo, l’FOMC ridusse il tasso di policy in 10 volte dal 6,5% all’1,75% nel dicembre 2001 ed in ulteriori due volte all’1% nel giugno 2003. Il taglio dei tassi di policy non erano strettamente collegati al crollo del mercato azionario.
Poiché l’espressione “Put” è stata coniata durante l’era Greenspan, lo studio prosegue analizzando i cali del mercato azionario del 5% o superiori che non abbiano raggiunto il 10%.
Utilizzando tale criterio, si è verificato un punto di massimo nel settembre 1989 e la Fed tagliò il suo tasso di policy; tuttavia la Fed iniziò a tagliare i tassi nel giugno 1989. Un altro punto che risponde alla logica di questo criterio, si trova nel gennaio 1994, quando il tasso di policy era del 3%. Si è verificato un altro punto di massimo nell’agosto 1994, quando la Fed ha iniziato ad aumentare il tasso di policy diverse volte, iniziando nel febbraio 1994, fino a portarlo al 6% nel gennaio 1995.
Altro picco di mercato che risponde al criterio del 5%, si è verificato nel giugno 1996. L’FOMC ha tagliato il tasso d’interesse al 5,25% nel gennaio 1996, che rimasero stabili fino al marzo 1997, quando la Fed decise di aumentarli nuovamente. Tale situazione si è ripetuta altre 2 volte, nell’agosto 1997 e nel dicembre 1997, periodo nel quale l’FOMC ha mantenuto i tassi stabili al 5,5%.
La storia rende evidente che non è vero che l’FOMC ha adottato una politica monetaria accomodante in maniera sistematica quando si sono verificati crolli del mercato azionario, con l’eccezione del periodo seguente la crisi del mercato azionario del 1987. Anche questo episodio rafforza il concetto che la prima preoccupazione dell’FOMC è quella di perseguire gli obiettivi macroeconomici e non di difendere il mercato azionario. Una politica monetaria accomodante viene adottata in periodi di recessione, sebbene alcune volte sia ritardata per i timori di una crescita dell’inflazione. La Fed adottò una politica monetaria accomodante dopo la recessione del 1990-91 e dopo quella del 2001; inoltre adottò una simile strategia in seguito a crisi di liquidità del sistema finanziario, come nell’autunno del 1998 e nell’agosto 2007. Chiaramente, in numerose occasioni la Fed ha mantenuto il suo tasso di policy costante, o lo ha aumentato, non appena i prezzi delle azioni sono crollati.
4.3.1.3 Effetti della politica stabilizzante della Fed sui mercati finanziari
Sebbene non c’è nessuna evidenza sul fatto che la Fed risponda all’andamento del mercato azionario, c’è un elemento di verità nel concetto che la politica della Fed può limitarne i rischi di una caduta. La stessa politica della Fed che riesce a stabilizzare il livello dei prezzi e l’economia reale dovrebbe tendere a stabilizzare anche i mercati finanziari. Pertanto, l’elemento di verità nella visione della “Fed Put” riflette un livello desiderabile di output grazie ad una politica monetaria efficace. La generica stabilità economica, per cui si intende stabilità dei prezzi e dell’economia reale, cambia la natura dei rischi nei mercati finanziari e, quindi, le strategie degli investitori.
Il fatto che pochi investitori siano preoccupati circa la possibilità estrema d’instabilità economica è un beneficio di una solida politica monetaria e non un costo; cambiamenti nelle pratiche d’investimento tendono ad una più alta crescita della produttività. La stessa cosa è vera per i cambiamenti di comportamento delle famiglie e delle imprese che riflettono il ridotto rischio di una recessione economica. Se non si ritiene che la stabilità economica sia un bene per l’economia e per la società, perché gli obiettivi della banca centrale dovrebbero essere la stabilità dei prezzi e la piena occupazione ?
Gli economisti hanno a lungo dibattuto sul fatto che la stabilità dei prezzi migliora l’efficienza economica, in parte perché le aziende e gli individui possono prendere decisioni sotto l’assunto che non hanno bisogno di seguire strategie disegnate per gestire un cambiamento del livello dei prezzi. Inflazione e deflazione provocano una distorsione nei prezzi relativi; tali distorsioni conducono ad una cattiva allocazione delle risorse. Con la riduzione del rischio d’instabilità dei prezzi, gli investitori si concentrano sui rischi relativi ai cambiamenti della domanda, della tecnologia e dei prezzi relativi. Una migliore valutazione di questi rischi promuove una migliore allocazione del capitale e promuove una maggiore crescita economica.
Il successo della politica monetaria nella stabilizzazione del livello generale dei prezzi non elimina i rischi per l’economia. L’effetto reale dell’inflazione e della deflazione, che dovrebbe verificarsi in futuro, sarebbe amplificato perché l’economia si è stabilizzata secondo un ambiente di stabilità dei prezzi. Una delle ragioni per cui la Grande Inflazione è stata così costosa, era che gli operatori economici nel 1965 non anticiparono l’inflazione. Le decisioni e le istituzioni che sono state profittevoli in un ambiente di stabilità dei prezzi, sono divenute improfittevoli non appena l’inflazione è aumentata nel 1965.
Quando gli eventi minacciavano di creare inflazione o deflazione, la Fed dovette agire per mantenere la stabilità dei prezzi. E’ vero che le azioni della Fed in alcune circostanze hanno “salvato” gli investitori che avrebbero perso ingenti somme se l’inflazione o la deflazione avesse preso il sopravvento. Ma il termine “salvataggio” è completamente inappropriato in questo contesto, perché implica il manifestarsi di costi dovuti al fatto che il governo fornisce capitali a supporto delle imprese che altrimenti andrebbero in bancarotta.
La banca centrale ha il compito di stabilizzare il livello dei prezzi; l’economia è più ricca quando le persone agiscono con la convinzione che la banca centrale avrà successo nel perseguire i suoi obiettivi.
Lo stesso concetto vale per le azioni della banca centrale in risposta ad eventi o shock che potrebbero condurre l’economia in recessione o in una condizione di crescita insostenibile. Assodato che la banca centrale non sacrifica la stabilità dei prezzi nel lungo periodo, dovrebbe rispondere alle nuove informazioni che indicano un aumentato rischio di recessione. Non c’è conflitto tra gli obiettivi di stabilità dei prezzi e di pieno impiego. La stabilità dei prezzi e le aspettative di stabilità dei prezzi consentono alla banca centrale di rispondere costruttivamente agli shock che minacciano di destabilizzare l’economia reale. Coloro che ancora credono che esiste un trade-off tra inflazione e disoccupazione dovrebbero riflettere sul fatto che la Grande Depressione era una conseguenza della deflazione e le recessioni del 1969, 1973-75, 1980 e 1981-82 erano conseguenze della Grande Inflazione.
In merito all’instabilità finanziaria, la banca centrale ha la responsabilità di fare quanto in suo potere per alleviare la tempesta sui mercati. Quando si verifica un aumento diffuso dell’avversione al rischio ed un’orientamento da parte degli investitori verso asset sicuri, la banca centrale dovrebbe fornire liquidità d’emergenza per prevenire la caduta del sistema bancario. L’iniezione di liquidità extra da parte della banca centrale “salva” le imprese che non hanno mantenuto sufficiente liquidità. Anche in questo caso il termine “salvataggio”, nella sua accezione più negativa, è completamente inappropriato. Nel frammentato sistema di riserve bancarie, è semplicemente impossibile per coloro che possiedono le passività bancarie, convertire tutti i loro crediti in denaro, ma gli sforzi per fare ciò spingeranno al ribasso la domanda aggregata. Lo stesso discorso vale per le passività emesse da imprese finanziarie non bancarie. L’estensione dei fallimenti di banche distruggerebbe i diritti degli investitori prudenti e di quelli imprudenti.
La banca centrale ha il compito di essere pronta a fornire il credito di ultima istanza alle banche “solvibili” e le banche commerciali, a loro volta, si assumono il rischio di credito nel fornire liquidità ad imprese “solvibili” non bancarie. Con il termine “solvibile”, si intende che le attività in bilancio di un’impresa valutate ad un valore veritiero coprono le passività, lasciando un livello adeguato di patrimonio netto. Il capitale di un’impresa può assorbire le perdite causate dal tradizionale rischio d’impresa. Si potrebbe discutere su cosa il “tradizionale rischio d’impresa” dovrebbe comprendere; ma, secondo Poole, depressione economica, iperinflazione e crisi finanziarie non sono incluse.
Il mercato azionario risponde ai cambiamenti delle aspettative riguardanti i profitti delle imprese, dalle quali dipende in parte lo stato dell’economia reale.
Una crescita dell’economia lenta o una completa recessione tende a ridurre i profitti ed il livello dei prezzi delle azioni. E’ desiderabile che le aspettative degli investitori sui profitti riflettano la conoscenza su come la banca centrale risponderà alle nuove informazioni riguardo il probabile corso dell’economia reale. L’uso del termine “conoscenza” e non “aspettativa” è per enfatizzare l’importanza di un elevato grado di fiducia del mercato nella banca centrale. Quando c’è un elevato grado di fiducia nella banca centrale, ognuno dovrebbe credere che la questa risponderà ad eventi che potrebbero condurre l’economia in recessione. In questo senso, la “Fed Put” dovrebbe esistere. Una banca centrale ha il compito di fare quanto è necessario per mantenere l’occupazione a livelli elevati.
Naturalmente, allo stato attuale delle conoscenze, la banca centrale non può prevenire tutte le forme di recessione, perché ha una conoscenza incompleta di come le imprese, le famiglie ed i mercati si comportano. In altri casi, una banca centrale non ha modo di prevedere alcuni eventi che possono condurre l’economia in uno stato di recessione.
La banca centrale può fare del suo meglio per rispondere appropriatamente ad eventi come il crollo del mercato azionario nel 1987 e l’attacco terroristico dell’11/9.
Quando si verificano tali crolli, gli operatori del mercato possono essere incerti riguardo la risposta adeguata, così come la banca centrale; tuttavia i primi hanno buone ragioni per credere che la banca centrale risponderà, non appena la risposta più efficace diverrà chiara. In questo senso, la fiducia nella banca centrale aiuta a stabilizzare i mercati.
4.3.1.4 I successi di policy della Fed producono instabilità finanziaria ?
Alcuni economisti hanno sostenuto, Hyman Minsky su tutti, che una politica monetaria efficace produce una maggiore instabilità finanziaria, poiché incoraggia gli investitori ad assumere maggiori rischi, specialmente grazie ad un maggiore indebitamento. Forse questo dibattito è al centro dell’argomento che le recenti azioni della Fed in risposta alla crisi dei mutui subprime aumenteranno solamente i rischi di crisi finanziarie future.
E’ difficile capire come verificare l’idea di Minsky, ma, secondo Poole, tale affermazione non è corretta. In una situazione di difficoltà come quella del mercato attuale, è importante ricordare che nei primi anni ’80, la fine della Grande Inflazione conduce al fallimento di molte imprese industriali, agricole, bancarie ed in alcuni casi anche di gran parte del settore dei depositi e prestiti. La crisi finanziaria del 1998 sembra modesta rispetto a quella dei primi anni ’80; naturalmente non ancora si conosce il quadro completo dell’attuale crisi del settore immobiliare e della finanza legata al settore immobiliare.
Ci sono buone ragioni per credere, sia dalla teoria sia dall’evidenza empirica, che l’instabilità del livello dei prezzi aumenta l’instabilità finanziaria. Forti cambiamenti del tasso d’inflazione, al rialzo o al ribasso, sono sempre imprevisti. Pertanto, l’inflazione crea cambiamenti imprevisti nel valore reale delle obbligazioni e di altri contratti fissati in termini nominali. I guadagni e le perdite tendono ad essere mutevoli, e le perdite sono grandi abbastanza da causare fallimenti. Lo stesso problema si verifica quando l’attività economica cambia in maniera imprevista e il tasso di fallimento delle imprese aumenta in periodi di recessione.
Quando il livello dei prezzi è ragionevolmente stabile e l’economia cresce regolarmente, i rischi macroeconomici si riducono. Tuttavia i rischi microeconomici non scompaiono.
Sin dalla fine della Grande Inflazione, la maggior parte dei periodi di instabilità finanziaria sono stati associati all’innovazione e non agli eccessi creati dalla stabilità economica. Le innovazioni di ogni tipo incoraggiano la sperimentazione; alcuni esperimenti mostrano risultati insoddisfacenti fino a quando l’ingegneria e le pratiche di gestione si adattano all’innovazione. Abbiamo visto questo processo con l’innovazione finanziaria – il portafoglio assicurativo che fallì durante il crollo del mercato azionario del 1987 e il fondo LTCM che fallì a causa di strategie di trading basate su un approccio altamente matematico. Alcune strategie di sottoscrizione e cartolarizzazione dei mutui subprime si sono dimostrate inadeguate, con enormi costi non solo per gli investitori ma anche per i proprietari di case che hanno dovuto far fronte ai pignoramenti.
4.3.1.5 Conclusioni
Gli economisti oggi non credono che le politiche per stabilizzare il livello dei prezzi e l’attività economica creano un azzardo. Le politiche della Fed che producono maggiore stabilità non proteggono dalle perdite gli investitori che hanno compiuto investimenti sbagliando strategie. Gli investitori e gli imprenditori hanno così tanti incentivi che hanno sempre dovuto gestire i rischi appropriatamente.
Nella situazione attuale, molti investitori hanno riportato e riporteranno pesanti perdite e non ci sarà politica monetaria che potrà evitarle. Chiaramente, le recenti azioni di policy della Fed non hanno protetto coloro che hanno investito in mutui subprime. L’obiettivo della politica monetaria non è quello di prevenire le perdite, ma di ripristinare il normale funzionamento del mercato. La questione non è se i mutui subprime saranno scambiati al 70% o al 30% del valore, ma se tali titoli possano essere scambiati a prezzi di mercato determinati secondo i suoi tradizionali processi. Dall’agosto 2007, tali titoli sono stati scambiati con difficoltà. Un mercato finanziario attivo è centrale nel processo di crescita dell’economia e la crescita di quest’ultima è ciò che persegue la banca centrale e non quella dei mercati finanziari.
Uno dei più affidabili e prevedibili aspetti della politica monetaria è l’azione di prevenzione dei collassi finanziari sistemici. La Fed non ha il desiderio o gli strumenti per prevenire perdite estese in un particolare settore, ma non dovrebbe rimanere indifferente a shock finanziari che colpiscono l’intera economia. Se ulteriori tagli dei tassi dei fed fund allevieranno la tempesta finanziaria, o ne aumenteranno i rischi, è sempre un appropriato argomento di discussione per l’FOMC.
Tuttavia una cosa è certa: la Fed non ha il potere di tenere il mercato ad un livello “appropriato”, sia perché ciò che è “appropriato” non è chiaro e sia perché la Fed non ha strumenti di policy che possono correggerlo, avendo effetti prevedibili sui prezzi delle azioni.
Alcune volte l’azione della Fed, con lo scopo di stabilizzare l’economia – attutendo la recessione o fronteggiando una crisi finanziaria sistemica – avrà l’effetto di fare aumentare i prezzi delle azioni. Questo effetto è parte del meccanismo attraverso cui la politica monetaria influenza l’economia.
In ogni caso è una lettura errata della politica monetaria credere che il mercato azionario sia un obiettivo di policy; è un errore anche credere che un’azione di policy, desiderabile per aiutare a stabilizzare l’economia, non dovrebbe essere presa, perché farebbe aumentare il prezzo delle azioni. Non ha senso lasciare che l’economia soffra di continui cali del prezzo delle azioni con lo scopo di “dare una lezione agli speculatori del mercato azionario”.
Secondo la visione liquidazionista di Mellon, la banca centrale non dovrebbe neppure tentare di proteggere gli investitori dalle loro decisioni avventate; facendo questo, infatti, distoglierebbe la sua strategia di politica monetaria dai suoi obiettivi principali, cioè stabilità dei prezzi e pieno impiego. La Fed creerebbe moral hazard se tentasse di spingere verso l’alto il mercato azionario ogni volta che questo crollasse, senza prestare attenzione al fatto che tali azioni di policy siano necessarie per conseguire gli obiettivi finali. Poole dal suo studio non ha rilevato alcuna evidenza che suggerisca che la Fed abbia seguito questa strada.
I mercati finanziari sono più stabili perché gli operatori si aspettano che il perseguimento con successo da parte della Fed dei suoi obiettivi di policy è il risultato atteso di una buona politica monetaria. Non siamo in presenza di moral hazard quando risposte di policy largamente prevedibili a nuove informazioni hanno effetti sui mercati azionari.
Tuttavia tale principio di politica monetaria non è ancora chiaro a molti operatori dei mercati finanziari. La stabilizzazione macroeconomica non fa aumentare il moral hazard, perché un’economia stabile non fornisce una garanzia per famiglie ed imprese di proteggersi dal fallimento. La migliorata comprensione di questo punto da parte del pubblico, non solo aiuterà la Fed a svolgere più efficacemente i suoi compiti, ma anche aiuterà le imprese private a gestire in maniera migliore i rischi.
4.3.2 Bce
Lo scenario dei tassi ufficiali di interesse, già orientati al rialzo fino all’estate 2007, è radicalmente cambiato dopo il manifestarsi della crisi dei mutui subprime americani nello scorso mese di agosto. I timori di un negativo impatto delle turbolenze finanziarie sull’economia reale hanno, infatti, indotto la Banca centrale europea a mantenere invariati i tassi al 4,00%, dopo l’ottavo ritocco al rialzo di un quarto di punto (a partire dal 2,00% del dicembre 2005) effettuato nel giugno 2007. Tuttavia la Bce ha provveduto ad allentare la politica monetaria solo dopo il fallimento di Lehman Brothers e con il concretizzarsi dei timori di recessione; questo perché la missione principale della Bce resta, infatti, il contenimento dell’inflazione, ma vanno considerati, in ogni caso, anche i rischi per la crescita. E tutt’ora le due banche centrali continuano ad avere tassi di policy differenti, vedi il 0 – 0,25% della Fed ed il 2% della Bce, oltre al fatto che la Fed ha adottato diverse iniziative in termini di finanziamento di assets illiquidi fino ad arrivare al riacquisto. Un indicatore che esprime meglio di tutti questo diverso atteggiamento è l’aumento della base monetaria; infatti confrontandone la crescita tra il bilancio della Fed e quello della Bce, nella prima c’è stata una crescita di circa due volte, mentre nella seconda di circa il 50%.
La ragione di questo diverso atteggiamento è dovuta, come spiegato anche in precedenza, al fatto che la BCE ha fissato come obiettivo finale il mantenimento della stabilità dei prezzi; proprio la chiarezza dell’obiettivo rende più difficile per la BCE, in momenti di inflazione superiore al target, come nel periodo durato fino a settembre-ottobre 2008, gestire la politica monetaria, in presenza di shock finanziari. Infatti nei periodi di crisi di liquidità, si verifica una contrazione del volume dei prestiti, causata dalla scarsa fiducia che si è venuta a creare tra gli intermediari finanziari, in seguito all’inaffidabilità dei giudizi di solvibilità dei mutui subprime e delle relative cartolarizzazioni; tale contrazione provoca una riduzione degli investimenti e dei consumi e di conseguenza una riduzione della domanda aggregata, portando l’economia, nello scenario più pessimistico, in uno stato di recessione.
Pertanto la BCE, si è trovata a fronteggiare una situazione di elevata inflazione e di uno stato dell’economia, ancora in crescita, ma che nei mesi a venire comunque dovrebbe rallentare ulteriormente a seguito della recessione in atto negli Usa. Tuttavia l’atteggiamento della BCE, resta quello di perseguire la stabilità dei prezzi nel medio-lungo periodo, perché solo con il suo conseguimento si potrà garantire una crescita sostenibile dell’economia.
Bisogna rilevare, però, che anche adesso che siamo in un periodo di chiara recessione, con rischi concreti di deflazione, il presidente Trichet ha affermato nella conferenza stampa del 5 febbraio, che la Bce non è intervenuta con un ulteriore taglio dei tassi perché le aspettattive inflazionistiche non sono ancora tali da giustificare un taglio al di sotto del tasso target.
Tuttavia però anche nell’UE ci si è resi conto della necessità di una bad bank, ossia di un organismo che riacquisti tutti gli asset tossici delle banche della zona euro. Il problema che a questo punto si pone, però, è di natura politica e quindi non più di competenza della banca centrale, infatti è emerso il diverso orientamento dei vari stati su tale materia così come sui piani di salvataggio approntati dai vari paesi, piani che non sono stati coordinati a livello europeo secondo delle linee guida, ma decisi in maniera piuttosto discrezionale dai vari stati.